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30 marzo 2011 3 30 /03 /marzo /2011 13:45


 

 

Quella fede nella letteratura:Carlo Bo

(Leone Piccioni, “Cronache di Liberal”, 22 gennaio 2011) 

 Roma-Cento anni dalla nascita e dieci dalla morte di Carlo Bo, uno dei pochi critici e scrittori del Novecento cha appare oggi molto difficile da sostituire non solo per il suo ingegno, per la sua cultura, la sua umanità ma per tutte le frequentazioni letterarie dei suoi lunghi anni di vita. Un percorso assai lungo e difficile da ripercorrere, e non certo a sufficienza negli spazi di un articolo o di un breve saggio. Ci ha provato nel '94 Sergio Pautasso con una lunga antologia critica di Bo pubblicata da Rizzoli, intitolata, proprio come un suo famoso saggio, Letteratura come vita, e, quel che più conta, con la prefazione di Jean Starobinski alle 1600 pagine del volume in cui scorrono saggi di Bo sulla letteratura italiana, quella francese, quella spagnola, gli scritti spirituali, quelli di varia umanità, certi suoi segreti personali.

Carlo Bo è stato un po', sommariamente, definito come il critico dell'ermetismo. Ecco cosa scriveva in proposito: «Vivevamo in una realtà che non ci soddisfaceva: non c'era niente che ci soddisfacesse, se non la poesia, la letteratura: la poesia ci pareva, forse per eccesso, l'unica via di salvezza. I termini di raffronto erano Mallarmé, Ungaretti, Montale, Éluard. Dalla guerra ci vennero altri interessi e altre preoccupazioni. La nostra opposizione al fascismo era totale, ma in molti di noi, in fondo, non era esattamente motivata: le vere motivazioni fu la guerra (almeno dalla crisi di Spagna) a farcele trovare. Ci trovavamo ad agire in un panorama della letteratura nostra ed europea che era bell'e fatto: si poteva naturalmente sbagliar di grosso e rifiutare la vera lettera tura; ma sarebbe stato un errore grave, un vero abbaglio, anche se tanti l'hanno preso. E c'eran molti punti di riferimento stabili, che sono saltati per aria, non ci sono più. Croce era volutamente tenuto fuori dai nostri confini: lo leggevamo ma lo escludevamo per rifiuto, specialmente in odio ai crociani, senza venir meno al grande rispetto che lui si meritava. Ma lo stesso spirito di supinità che si può riscontrare oggi da parte di molta cultura nei confronti della moda, lo aveva la cultura del tempo rispetto a Croce. Per credere nella letteratura, si doveva rompere con Croce: lui stesso, del resto, aveva rotto con la letteratura, da un pezzo, rifugiandosi nella difesa dei suoi gusti vecchiotti». Nel '39 teorizza il tema dell'assenza nella letteratura: è nel libroL'assenza, la poesia: «Parlando di assenza intendevamo esprimere, o meglio, io intendevo esprimere, il distacco da una realtà che non ci soddisfaceva e ci umiliava. Tutta la polemica - proseguiva Bo - tra impegno e disimpegno che sarebbe scoppiata dopo la guerra aveva le sue origini proprio in quel tempo… Assenza era una specie di negazione e di rifiuto della società del tempo con tutte le sue cadute. In questo vuoto che apparentemente veniva creato dall'assenza, dalla filosofia o religione dell'assenza, ecco che assumeva risalto invece la poesia, intesa come l'u francenica possibile verità del momento ». Citazioni importanti sulle quali è bene soffermarsi perché liberano quel clima e quel tempo da ogni retorica, da ogni materialismo, da ogni realismo per toccare direttamente i sentimenti della spiritualità, dell'amore, del dolore, della nuova speranza («voce festiva della speranza»).

Del '38 sono gli Otto studi dedicati - pensiamo anche un po' al gusto della scelta per quell'epoca - a Ungaretti, Montale, Campana, Serra, Boine, Jahièr e Sbarbaro con l'aggiunta di quella esperienza contenuta nel saggio Letteratura e vita che costituì un po'il vademecum per tanti suoi coetanei e persone più giovani. «Non ci preoccupano tanto i due termini della nostra condizione - scriveva Bo a proposito della letteratura e della vita - ma soltanto la prima, l'unica ragione di essere». Alla letteratura da svago o da esercitare «nelle pause della vita», Bo non aveva mai creduto. «Per noi sono tutte e due e in egual misura strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l'assoluta necessità di sapere qualcosa di noi, o meglio di continuare ad attendere con dignità, con coscienza una notizia che ci superi e ci soddisfi… Per un letterato non c'è che un'unica realtà, questa ansia del proprio testo verso la verità; il resto è stata materia nobile e ormai abbandonata. La letteratura è la vita stessa e cioè la parte migliore e vera della vita. È una letteratura d'entusiasmo: e non viv al di fuori dell'anima». E concludeva: «Non si pensi che questa letteratura rifiuti la vita, no, l'accetta soltanto in un grado di maggiore purezza e come simbolo svelato».

Bo nacque a Sestri Levante e non mostrò, al principio dei suoi studi, nessuna particolare preoccupazione per la letteratura. Era un bel giovanotto, abilissimo nuotatore. «Da mio padre mi giungeva - racconta - il senso, il sacro rispetto della libertà individuale » (di qui l'antifascismo), «da mia madre mi veniva il senso religioso che in parte proveniva da un sentimento profondo cui in seguito ho cercato di ispirarmi e di restare fedele» (di qui gli scritti di spiritualità e di varia umanità). A Genova, in seconda liceo, incontra come insegnante di greco Camillo Sbarbaro. Un incontro che cambia la sua vita. Nel '29 va a Firenze per continuare gli studi e lì incontra tra gli studenti Luzi,Traverso, Landolfi («diventato uno dei migliori scrittori italiani se non addirittura il migliore») e Poggioli. Esperti di letterature straniere: francese, spagnola, tedesca, russa. E a Firenze c'è anche il gruppo delle Giubbe rosse, caffè frequentato dai letterati del tempo, da Montale e Gadda, e c'è il gruppo della rivista cattolica Il Frontespizio con Bargellini, Betocchi, Lisi. Da questo crogiuolo i vasti, penetranti temi della ricerca di Bo.

Eccoci ai suoi libri: per la letteratura italiana antica e contemporanea oltre gli Otto studi, Nuovi studi del '46, Della lettura e altri saggi del '53, nel '64 l'importante scritto L'eredità di Leopardi, nel '67 La religione di Serra, tutti scritti preceduti da un'antologia dei Lirici del Cinquecento curata da Bo già nel'41. Si aggiungano le inchieste sul Neorealismo del '51, sul Surrealismo del'44. Per la letteratura francese, il saggio su Jacques Rivière, sua tesi di laurea, pubblicato nel '35, l'ampio libro Delle immagini giovanili di Sainte-Beuve del '38, i Saggi di letteratura francese del '40, il gran libro su Mallarmé del '45 e La nuova poesia francese del '52. Sulla letteratura spagnola si prende il grande merito di aver tradotto per primo in Italia le poesie di García Lorca nel '40, mentre del '48 è il libro Carte spagnole. Non pensiamo di aver elencato tutte le opere di Bo dedicate alla letteratura ma credo si possa passare per importanza agli scritti di spiritualità, ricordando almeno Siamo ancora cristiani? del '64, Don Mazzolari e altri preti del '79 e Sulle tracce del Dio nascosto dell'84, che raccoglie sessantotto articoli scritti tra il '60 e l'80 per Il Corriere della Sera. Si chiede Bo: «Che cosa ho voluto fare con gli scritti spirituali? Sono partito in sordina e dalla letteratura pura, ma devo dire che questo capitolo mi ha aiutato a rientrare nel mondo e quindi a cercare delle parole che tutti fossero in grado di comprendere… Ho coscienza della fragilità e spesso della fatuità delle mie convinzioni. Per poter dire di aver fatto davvero qualcosa bisognerebbe avere almeno delle risposte dai lettori; ora di risposte ne ho avute, ma non oserei sostenere di essere diventato un suggeritore riconosciuto ». Scrive ancora. «La meditazione diventa ben più amara e crudele. Alludo allo spirito di conseguenza che mi è mancato, al vizio perpetuo di cominciare una battaglia e subito dopo abbandonarla. La persona ha mostrato e ingigantito le stesse insufficienze dello scrittore, e questa è la peggiore condanna per uno che si professa cattolico». E scrive di Maritain, Bernanos, Green, La Pira, Don Orione, Don Mazzolari. Ho ascoltato anni fa una commemorazione fatta da Bo su Don Mazzolari, che aveva conosciuto e frequentato di persona. Concluse quella commemorazione quasi piangendo e disse di aver incontrato nella vita tanti uomini importanti, scrittori, artisti, politici ma che in Don Mazzolari aveva trovato un Santo e quando si incontra un Santo tutti gli altri valori perdono quota e sembrano ben poca cosa.

Studente universitario a Firenze, allievo di De Robertis, sentii nominare da lui i due nomi nuovi della critica che promettevano risultati importanti: Carlo Bo e Gianfranco Contini. Contini era avviato soprattutto alla ricerca filologica: arriverà a essere uno degli studiosi internazionali più grandi. Bo oltre agli studi sulla letteratura tendeva - come si è detto - a una ricerca di varia umanità e anche di spiritualità. L'ho conosciuto nel '48 dopo le elezioni politiche vinte dalla Dc, mentre dirigevo la terza pagina del Popolo (direttore Mario Melloni). Giancarlo Vigorelli, di cui ero da tempo amico, portò Bo in redazione al giornale e mi resi subito conto di aver incontrato in lui un uomo di grandissima cultura, di febbrile sensibilità e di grande simpatia. Allora Bo firmava in esclusiva su un quotidiano milanese, ma accettò di collaborare a quel «mio» Popolo con una sigla.Arrivò quasi subito prima alla Stampa e poi al Corriere della Sera fino alla morte. Da allora la nostra amicizia si fece più grande e più confidenziale. Non c'era volta che Bo venisse a Roma che non ci vedessimo per fare colazione sempre allo stesso ristorante che frequentò tutta la vita e che tutt'oggi frequento anch'io. Era un intenditore di buona cucina anche se i suoi pasti erano molto leggeri e non beveva vino. Se io andavo a Milano, come avvenne per diversi anni perché insegnavo allo Iulm, ogni lunedì mattina ero a colazione a casa sua e della sua cara e affascinante moglie, la scrittrice Marise Ferro. Bo viveva tra Milano, Urbino a Sestri Levante, suo luogo di nascita. Tre sedi e tre straordinarie e vastissime librerie.Tutti i suoi libri Bo li ha regalati all'Università di Urbino, e adesso costituiscono il fondo della «Fondazione Carlo e Marise Bo per la letteratura europea moderna e contemporanea ». Ordinava i libri anche in Francia per essere più al corrente della produzione letteraria. A Urbino Bo andò in cattedra nel '39 come professore di francese e, dal '50 fino alla morte ne fu Rettore. Era circondato da ottimi collaboratori, insegnanti, assistenti: ricorderò sempre Ursula Vogt e, almeno, il professor Pino Paioni. Da piccola università di provincia Urbino divenne una grande università molto frequen- tata. Bo creò i Collegi che ospitavano gli studenti e fece ricostruire molte aule universitarie. Anche la città ne sentì i benefici. Passava le giornate all'università e alla sera si poteva sempre trovare al Circolo con gli amici. Nella conversazione appartiva abbastanza taciturno. Ma certe sue occhiate, certi suoi sorrisi erano molto più eloquenti di tante parole: conversava con gli occhi. A Milano la domenica mattina andava alla messa del Duomo anche per ascoltare le omelie di Padre Davide Maria Turoldo.Anche a Sestri d'estate Bo lavorava, specialmente la mattina, e poi passava un po'di tempo al caffè con gli amici e i cari nipoti. Non ricordo che abbia mai scritto una «stroncatura ». Si doveva - diceva - avere almeno rispetto del lavoro degli altri anche se non riusciti. Era velocissimo nel pensiero e nella scrittura. Ricordo una colazione con lui a Vicenza: mentre si mangiava arrivò una telefonata del Corriere che chiedeva un articolo urgente: Bo si fece portare la carta e restando al tavolo scrisse di getto il suo pezzo che poi trasmise subito per telefono al giornale.

Amava molto farsi raccontare (anche più volte) certe battute che conoscevo specie di Gadda e di Cardarelli. Delle prime ero stato testimone lavorando in Rai per anni con il Gran Lombardo («uno scrittore detto La Fava annunciò di aver scritto un poema sulla libertà: preferisco la schiavitù » dichiarava Gadda). Le battute di Cardarelli mi venivano soprattutto ripetute da Vincenzo Talarico ed Ennio Flaiano (ho raccolto quelle battute da Pananti a Firenze in due libretti, Cardarelliana eIdentikit dell'ingegnere). Era anche lui un efficace battutista. A Urbino durante le agitazioni studentesche si sentì accusare in una riunione dagli studenti: «È colpa tua, Bo, se i Collegi non funzionano; è colpa tua Bo per la mensa, è colpa tua Bo per la qualità delle lezioni…». Imperturbabile, con il suo eterno sigaro in bocca, ascoltava; poi si rivolse all'esaltato studente solo per dirgli: «Chiamami Carlo!». (Similmente, in modo opposto, a quella esclamazione di De Gasperi rivolta al giovane comunista Pajetta che inveiva contro di lui dandogli del tu: «Giovanotto, mi dia del lei!»).


 

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